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Introduzione a Le citt invisibili di Italo Calvino

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E' l'autore stesso che scrive l'introduzione a questo libro orientandoci nelle Città invisibili


Nelle Città invisibili non si trovano città riconoscibili. Sono tutte città inventate; le ho chiamate ognuna con un nome di donna; il libro è fatto di brevi capitoli, ognuno dei quali dovrebbe offrire uno spunto di riflessione che vale per ogni città o per la città in generale.
Il libro è nato un pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che mettevo
sulla carta, seguendo le più varie ispirazioni.[...]
Le città invisibili si presenta come una serie di relazioni di viaggio che Marco Polo fa a Kublai Kan imperatore dei Tartari. Non che mi sia proposto di seguire gli itinerari del fortunato mercante veneziano che nel Duecento era arrivato in Cina, e di là, come ambasciatore del Gran Kan, aveva visitato buona parte dell’Estremo Oriente. Adesso l’Oriente è un tema che va lasciato ai competenti, e io non sono tale. Ma in tutti i secoli ci sono stati poeti e scrittori che si sono ispirati al Milione come a
una scenografia fantastica ed esotica: Coleridge in una sua famosa poesia, Kafka nel
Messaggio dell’Imperatore, Buzzati nel Deserto dei Tartari. Solo Le mille e una notte possono vantare una sorte simile: libri che diventano come continenti immaginari in cui altre opere letterarie troveranno il loro spazio; continenti dell’”altrove”, oggi che l’”altrove” si può dire che non esista più e tutto il mondo tende a uniformarsi.
A questo imperatore melanconico, che ha capito che il suo sterminato potere conta ben
poco perché tutto il mondo sta cambiando andando in rovina, un visionario racconta di città impossibili, per esempio una città microscopica che s’allarga s’allarga e risulta costruita di tante città concentriche in espansione, una città ragnatela sospesa su un abisso, o una città bidimensionale come Moriana.[...]
Credo che non sia solo un’idea atemporale di città quello che il libro evoca, ma che vi si
svolga, ora implicita ora esplicita, una discussione sulla città moderna. Da qualche amico
urbanista sento che il libro tocca vari punti della problematica, e non è un caso perché il retroterra è lo stesso. E non è solo verso la fine che la metropoli dei “big numbers” compare nel mio libro; anche ciò che sembra evocazione d’una città arcaica ha senso solo in quanto pensato e scritto con la città di oggi sotto gli occhi.
Che cosa è oggi la città per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema
d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci ad un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell’ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici che può produrre guasti a catena, paralizzando metropoli intere. La crisi della città troppo grande è l’altra faccia della crisi della natura. L’immagine della “megalopoli”, la città continua, uniforme, che va coprendo il mondo, domina anche il mio libro. Ma libri che profetizzano catastrofi e apocalissi ce ne sono già tanti; scriverne un altro sarebbe pleonastico, e non rientra nel mio temperamento, oltretutto. Quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno
portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi.
Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici.
Quasi tutti i critici si sono soffermati sulla frase finale del libro: “cercare e saper
riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Ma questo è un libro fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli; e anche di non meno epigrammatiche o epigrafiche di quest’ultima. Certo, se questa frase è capitata in fine del libro non è a caso, ma cominciamo col dire che quell’ultimo capitoletto ha una conclusione duplice, i cui elementi sono entrambi necessari: sulla città d’utopia (che anche se non scorgiamo non possiamo smettere di cercare) e sulla città infernale.
E ancora: questa è solo l’ultima parte del “corsivo” sugli atlanti del Gran Kan, per il resto piuttosto trascurato dai critici, e che dal primo pezzo all’ultimo non fa che proporre varie possibili “conclusioni” a tutto il libro.
Ma c’è anche l’altra via, quella che sostiene che il senso di un libro simmetrico va cercato nel mezzo: ci sono critici psicoanalitici che hanno trovato le radici
profonde del libro nelle evocazioni veneziane di Marco Polo, come un ritorno ai primi archetipi della memoria; mentre studiosi di semiologia strutturale hanno detto che è nel punto esattamente centrale del libro che bisogna cercare: e hanno trovato un’immagine di assenza, la città chiamata Bauci. Qui è chiaro che il parere dell’autore è di troppo: il libro, come ho spiegato, si è fatto un po’ da sé, ed è solo il testo com’è che può autorizzare o escludere questa o quella lettura.
Come lettore tra gli altri, posso dire che nel capitolo quinto, che sviluppa nel cuore del libro un tema di leggerezza stranamente associato al tema della città, ci sono alcuni dei pezzi che considero migliori come evidenza visionaria e forse queste figure più filiformi (“città sottili” o altre) sono la zona più luminosa del libro. Non saprei dire di più.


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